Infermiere rifiuta il vaccino anti-Covid: cosa succede se contrae il virus?

Infermiere rifiuta il vaccino anti-Covid: cosa succede se contrae il virus?

Premesso che, come Professionisti della Salute riteniamo eticamente e deontologicamente opportuno sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19, vi proponiamo un articolo tratto da Altalex.

L’Inail risponde ad uno specifico quesito posto da un ospedale di Genova relativo al riconoscimento dell’infortunio sul lavoro e pertanto del relativo indennizzo, a favore del personale infermieristico, qualora quest’ultimi rifiutino il vaccino anticovid. L’art. 32 Cost. tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività nei confronti sia dello Stato che della generalità dei consociati, vietando ogni trattamento sanitario che prescinda dal consenso informato del paziente, salvo diversa disposizione di legge. La legge può imporre un determinato accertamento o trattamento sanitario solo quando ciò sia giustificato non tanto dal vantaggio che può trarne il soggetto singolo a cui è imposto, ma dalla necessità di tutelare l’interesse superiore alla protezione della sanità pubblica, ed è il caso delle vaccinazioni obbligatorie (Corte cost. n. 107/2012). Al di fuori dei casi eccezionali imposti dalla legge, gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari e richiedono quindi il consenso specifico ed espresso dell’avente diritto, in ossequio al principio di auto-responsabilità (si veda: art. 1 legge 180/1978, art. 33 legge 833/1978, Cass. n. 2854/2015). Attualmente non è intenzione del Governo disporre l’obbligatorietà della vaccinazione Anticovid, tuttavia, la mancata adesione al piano vaccinale potrebbe da un lato esporre lo stesso personale infermieristico a richieste di risarcimento per danni civili, oltre che a responsabilità per violazione del codice deontologico e dall’altro potrebbe comportare la responsabilità del datore di lavoro in materia di protezione dell’ambiente di lavoro. Senza dilungarci in una analisi specifica della responsabilità degli operatori sanitari, ricordiamo solamente che con responsabilità medica si intende la responsabilità degli operatori sanitari e delle strutture sanitarie e socio-sanitarie per i danni derivanti da episodi di c.d. “malasanità”. Attualmente la legge Gelli – Bianco (l. 24/2017) ha differenziato la responsabilità della struttura sanitaria da quella degli operatori, prevedendo una responsabilità a titolo contrattuale per le strutture sanitarie e una responsabilità di tipo extracontrattuale per gli operatori. Spetterà quindi al danneggiato l’onere probatorio della condotta dannosa del sanitario e la sua imputabilità a titolo di dolo o colpa dovendo ovviamente sussistere un nesso causale tra la condotta dell’operatore sanitario e la lesione alla salute subita del paziente. Ciò comporta che in caso di contagio da Covid-19 dei pazienti in cura presso una struttura sanitaria, gli operatori sanitari e l’azienda stessa, potrebbero, in determinati casi, esserne ritenuti responsabili. Il datore di lavoro è responsabile invece per gli infortuni sul lavoro dei propri dipendenti ed è tenuto al risarcimento del danno verificatosi, quando il sinistro sia riconducibile ad un suo comportamento colpevole per aver violato uno specifico obbligo di sicurezza imposto da norme di legge, oppure, desumibile dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. L’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Di conseguenza il datore deve predisporre le misure necessarie per poter ridurre al minimo il rischio che i dipendenti si ammalino e contraggano il Covid19 sul posto di lavoro. La responsabilità del datore di lavoro tuttavia non è automatica, il medesimo risponderà penalmente e civilmente solo a seguito dell’accertamento del dolo o della colpa del lavoratore. Come precisato anche dall’Inail infatti non bisogna confondere il riconoscimento di un indennizzo a un lavoratore infortunato con i requisiti totalmente diversi che possono giustificare un’azione civile o penale. Secondo l’art. 2, c. 1, D.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 si considera infortunio, ai fini della tutela assicurativa obbligatoria, ogni evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione da lavoro per più di tre giorni. La giurisprudenza intende per causa violenta un fattore esterno, rapido e intenso che arrechi un danno o una lesione all’organismo del lavoratore, con occasione di lavoro si intende la circostanza che l’infortunio sia ricollegabile ad un nesso eziologico (che indaga le cause dei fenomeni) allo svolgimento dell’attività lavorativa (Cass. n. 18980/2003). In sintesi, l’assicurazione gestita dall’INAIL ha la finalità di proteggere il lavoratore da ogni infortunio sul lavoro, anche da quelli derivanti da colpa, e di garantirgli i mezzi adeguati allo stato di bisogno derivante dalle conseguenze che ne sono derivate (Cass. n. 7649/2019). Il quesito posto all’INAIL interessa in particolare il ruolo da attribuire alla volontà del personale infermieristico di non sottoporsi alla profilassi vaccinale, considerata l’assenza di un obbligo per legge, con riguardo all’operatività della tutela assicurativa disposta dall’INAIL in caso di avvenuto contagio in occasione di lavoro. La giurisprudenza consolidata afferma che il comportamento colposo del lavoratore, tra cui rientra anche la violazione dell’obbligo di utilizzare i dispositivi di protezione individuale, non comporta di per sé, l’esclusione dell’operatività della tutela prevista dall’assicurazione INAIL. Il comportamento colposo del lavoratore può ridurre ovvero escludere la responsabilità del datore di lavoro, facendo venir meno il diritto dell’operatore sanitario infortunato al risarcimento del danno come sopra accennato, nonché il diritto dell’INAIL ad esercitare il regresso, nei confronti sempre del datore di lavoro, ma non comporta l’esclusione della tutela assicurativa apprestata dall’Istituto. Al tal proposito la Cassazione afferma: “sebbene ovviamente la violazione di norme antinfortunistiche da parte del lavoratore debba essere considerata un comportamento sicuramente illecito (tanto che la legislazione più recente, al fine di responsabilizzare il lavoratore, prevede sanzioni anche a carico di questi quando non osservi i precetti volti alla tutela della salute nei luoghi di lavoro), l’illiceità del comportamento non preclude comunque in alcun modo la configurabilità dell’infortunio come evento indennizzabile; in quanto la colpa dell’assicurato costituisce una delle possibili componenti causali del verificarsi dell’evento insieme al caso fortuito, alla forza maggiore, al comportamento del datore di lavoro ed al comportamento del terzo” (Cass. n.17917/2017). Non appare nemmeno ipotizzabile nel caso del rifiuto di vaccinarsi, l’applicazione del concetto di “rischio elettivo”, elaborato dalla giurisprudenza per delimitare sul piano oggettivo l’occasione di lavoro e, dunque, il concetto di rischio assicurato o di attività protetta. L’infortunio derivante da rischio elettivo infatti è quello che è conseguenza di un rischio collegato ad un comportamento volontario, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, indipendente dall’attività lavorativa, cioè di un rischio generato da un’attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa (Cass. n. 11417/2009). L’INAIL nella sua Istruzione operativa non configura il rifiuto al vaccino come assunzione di un rischio elettivo valido ad escludere la tutela assicurativa. Come sopra rilevato allo stato attuale non vi è un obbligo di vaccinazione Anticovid e in generale non si individua nella legge un obbligo specifico di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore, Il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 all’articolo 279 riguardante Prevenzione e controllo, stabilisce che “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari (…)” tra cui “a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”, ma non prevede l’obbligo del lavoratore di vaccinarsi. Il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario, non costituisce quindi una condizione a cui subordinare la tutela assicurativa. Pertanto la tutela da parte dell’istituto opererà se e in quanto il contagio è riconducibile all’occasione di lavoro nella cui nozione rientrano tutti i fatti anche straordinari ed imprevedibili, inerenti l’ambiente, le macchine, le persone, compreso il comportamento dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione. L’INAIL conclude però chiarendo che quanto rilevato non comporta l’automatica ammissione a tutela del lavoratore che abbia contratto il contagio e non si sia sottoposto alla profilassi vaccinale in quanto, come precisato nella circolare n. 13/2020, occorre comunque accertare concretamente la riconduzione dell’evento infortunistico all’occasione di lavoro.

INAIL, ISTRUZIONI OPERATIVE 1° MARZO 2021 >> SCARICA IL PDF

Fonte: altalex.com

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Giuseppe Savasta

Segretario Provinciale

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